24 febbraio 2009
Con frittole e curcuci!! Non sono bastati i pur nobili fumi degli arrosti di salsiccia, che hanno fatto da cornice al brindisi della Traviata, intonato sul palcoscenico di Piazza Sant’Agostino, durante la notte bianca di Reggio, adesso, le frittole ed i curcuci, guadagnano nientemeno che il palcoscenico del Teatro Cilea: il nostro Cilea! Quante ne dobbiamo vedere, ancora, prima di manifestare la nostra indignazione e tornare, come una volta, a fischiare ciò che riteniamo superfluo, effimero, se non addirittura, offensivo? Va bene che viviamo il tempo dell’indifferenza ma, per dirla con Totò, ogni limite ha la sua pazienza! E noi l’abbiamo persa! Per trent’anni siamo stati senza Teatro. I nostri figli non hanno mai visto un’opera al Cilea. Sono cresciuti senza corredare il loro bagaglio culturale di una frequentazione vitale per la mente, il sapere, la conoscenza del bello. Questo però, non autorizza nessuno a pretendere di essere apprezzato, per il solo fatto di calcare le scene del Tempio reggino dell’arte, scaricando sulle polverose tavole del palcoscenico, di tutto. Quantitativamente. Si stanno susseguendo stagioni su stagioni, insignificanti e dispendiose, che esprimono una sottocultura di cui proprio non ne sentiamo il bisogno. Propinando balletti senza orchestra, opere liriche senza prove, zibaldoni sotto forma di operetta e veri e propri vilipendi dell’arte, come si pensa di colmare il baratro lasciato da trent’anni di vuoto culturale? Come si può permettere una regia parrocchiale che, con il malcelato intento di strappare qualche risata inopportuna, inserisce in una delle più belle operette di Johann Strauss jr., curcuci e frittole? L’operetta, in genere, si presta all’ ironia, alle battute ed al sarcasmo, ma resta comunque una delle più eleganti forma dell’arte musicale. Lustrini, frac e champagne, mal si compendiano con la gastronomia popolare. Non è spocchiosa mania, ma solo rispetto per l’Autore ed il suo pubblico. Un pubblico, quello reggino, attento amante della buona musica, che ha mostrato di non gradire gli esagerati inserimenti, fuori luogo, di opere verdiane e pucciniane nel secondo atto del Pipistrello. Chi sceglie di assistere ad un’operetta, ha l’animo predisposto al sano divertimento, alla spensieratezza, alla leggerezza di temi e musiche: chi la mette in scena non può ingannarlo contaminandola con il melodramma, il balletto impegnato ed interminabile, prolungando con una ripetitività ossessiva discutibili scene pseudo comiche, che fanno solo sorridere i pochi bambini presenti. Domenica sera abbiamo dovuto assistere ad un inutile e fastidioso sfoggio di pseudo cultura. Sembrava ci fosse chi doveva far capire che lui, reggino emigrato, era capace di palleggiare con Verdi, Puccini, Offenbach, Tchaikovsky, mescolandoli ad uno stupito Strauss, che avrà avuto un bel da fare a rimanere immobile nel suo avello. È ben vero che il Pipistrello si presta ad introdurre uno spettacolo nello spettacolo, ma, giammai, è consentito il sovrapporre un opera ad un’opera: si inganna e si fuorvia il pubblico. E poi, la lunghezza. Interminabile. Le voci non disprezzabili, la musica sublime, un coro, stranamente epurato ma di livello, ed un’orchestra eccellente hanno in parte evitato sbadigli e segni di insofferenza. Solo una grande benevolenza ed il giocare in casa del regista ce lo fanno assolvere col beneficio del dubbio: ha voluto farci assistere ad uno zibaldone rievocativo della lirica d’eccellenza: una sorta di ripasso per adulti non analfabeti, ma frustrati da prolungato digiuno musicale. Ah! A proposito, vorremmo fare rispettosamente notare – e con noi tutti i melomani – che la romanza “sola, perduta, abbandonata” è affidata da Puccini alla sua Manon, soprano, …farla, sia pur accennare, ad un tenore, è davvero troppo!! Padre, perdona loro, perché… sono reggini.