8 gennaio 2017
“Non siamo insensibili al grido di dolore…” diceva, in un celeberrimo discorso, Vittorio Emanuele ll a senatori e deputati del piccolo regno sabaudo. Mi torna alla mente perché, al di là dei corsi e ricorsi storici di vichiana memoria, mi sembra di rivivere una analoga situazione. O meglio, si attaglia bene alla nostra realtà locale, ciò che avvenne nel 1860. Questa volta Íl grido di dolore è culturale. Accostato a quello del popolo oppresso del Risorgimento, è pur sempre un grido dí libertà che proviene dalla gente. Un grido forte, unanime, rivolto alle stanze del potere amministrativo e politico, non solo cittadino. Il tema della cultura è affrontato quotidianamente, spesso è richiamato a sproposito e senza cognizione di causa. Il più delle volte è utilizzato per nascondere o contrabbandare fatti, misfatti, dal netto sapore sub culturale. Tuttavia è forte la richiesta del popolo che sa bene che negare l’elemento culturale in tutte le sue corrette sfaccettature è un modo come un altro per arrestare il progresso, soggiogare ed addirittura abbattere il livello della qualità della vita. Le rivoluzioni accendono le micce negli ambienti del sapere e trovano facile esca nel popolo consapevole. I POTENTI TEMONO LA CULTURA ED IL SUO DIFFONDERSI. Fortunatamente viviamo in democrazia e qui la diffusione di essa non è supportata spesso per indolenza, incapacità o assuefazione. Il tutto condito dalla solita stucchevole “excusatio” che non ci sono fondi… In effetti è vero. Tutti i governi italiani, di destra o di sinistra, maldestramente hanno sempre tagliato le sovvenzioni per questo vitale settore della vita pubblica, con la inaccettabile motivazione che non trattasi di un investimento produttivo. Mentono, sapendo di mentire, allora? O ci si adegua o si grida… di dolore… Così hanno fatto i nostri giovani, la nostra scuola, le nostre Associazioni! Non si sono arresi ai teatri chiusi, alle serate di pseudo cultura per le quali, guarda caso, le risorse ci sono, non si sono assuefatti alle costose manifestazioni di finta antimafia, ai famigerati e plurifinanziati musei della ‘ndrangheta, agli striscioni dietro i quali i furfanti si attestano confondendosi tra la gente per bene. Hanno reagito. Con le armi della caparbietà, dell’innato talento e del sacrificio. Hanno rivendicato il loro ruolo indirizzando al ponte di comando un grido forte e chiaro: rivogliamo i nostri spazi! Riapriamo i teatri! Riscopriamo il nostro patrimonio culturale! Non si sono messi d’accordo, non hanno studiato a tavolino una strategia. Ma si sono ritrovati su tre diversi palcoscenici, inconsapevolmente partecipando ad un unico disegno fortemente propositivo e dimostrativo. Reggio Città Metropolitana vuole vivere una vita civile e vuole essere riconosciuta per quello che è: figlia della bellezza greca e della potenza latina, non già sinonimo di terra di ‘ndrangheta, ma patria di gente perbene, di artisti, di poeti, di musicisti, di gente laboriosa e capace. QUESTO, non altro, il messaggio, al di là del valore artistico innegabile delle tre performance. La prima al teatro Odeon, con un musical dei giovani di Don Valerio. Una messa in scena degna di Broadway. Chiunque l’abbia vista si sarà trasferito nel mondo fantastico di Peter Pan, commuovendosi non solo per essere tornato bambino, ma per aver sognato grazie a quei fantastici giovani! Altro che pensare al futuro dei nostri giovani, come retoricamente annuncia ogni politico in cerca solo di consensi, magari nelle discoteche. Bisogna pensare al presente! Al futuro sapranno provvedere da soli e bene, molto bene! Il secondo palcoscenico è quello del Cilea. E senti senti… spazio all’operetta!!! All’operetta? Si, e con giovani ai quali non l’abbiamo fatta mai vedere! Incredibile! Ragazzi e ragazze di 16, 17 anni, affiancati da qualche genitore lungimirante, nonché docenti ai quali andrebbe riconosciuto un premio al valore sociale, capitanati da un generale di brigata che è la Preside del Liceo Vinci, si trasferiscono in un paese immaginario olandese e mettono su uno spettacolo che farebbe impallidire la Compagnia Italiana dell’Operetta ed il Teatro Duse di Bologna, patria di questo genere di spettacolo che tutto il mondo ci invidia. Che meraviglia! Costumi, entrate a tempo, sceniche movenze, regia perfetta ed una orchestra splendida ci fanno rivivere i fasti di un tempo! E pensare che l’operetta manca dal Cilea da decenni. Ciò che gli adulti non hanno saputo fare, lo hanno reso possibile giovani di spessore che hanno sacrificato le loro vacanze per farci capire che il Teatro è vita. La loro e la nostra. È un bene irrinunciabile. Dulcis in fundo, ieri sera. Una vera e propria magia. Questa volta da parte di una Associazione, capitanata da una altra passionaria reggina. Meno male che ne esistono. Dall’operetta all’opera. Terzo palcoscenico. Il Cipresseto. Magicamente trasformato in un teatro lirico. In scena la Traviata. Nella sua versione completa. Con tanto di coro e orchestra. In versione ridotta ma… non ce ne siamo accorti! 300 persone incollate alle sedie ad applaudire un cast gradevole, intonato, espressivo, tanto da far commuovere i più sensibili. E quando uno spettacolo commuove è un’opera d’arte ben interpretata. Insomma, il grido di dolore culturale è stato lanciato. Chi deve provvedere, provveda. La gente rivendica i suoi diritti e lo fa con classe e coi fatti. Musical, operetta ed opera hanno bisogno dei loro spazi e del nostro plauso. Un buon amministratore è colui il quale recepisce ciò che il popolo desidera e lo mette in atto. Senza accampare scuse. I fondi si trovano e soprattutto gli artisti. Questi ultimi li abbiano in casa. Basta chiamarli! Risponderanno, anzi hanno già risposto.