11 novembre 2009
Quando ero un giovane studente mi capitava spesso di entrare in Consiglio Comunale, dove, andando ad occupare un posto di quelli riservati al pubblico, rimanevo incantato ad ascoltare gli interventi di alcuni dei Padri di questa città. Il gonfalone, i Vigili in alta uniforme, il silenzio che regnava sovrano, facevano da cornice ai signori della politica che, rigorosamente in giacca e cravatta, affrontavano i problemi della città, utilizzando un eloquio che per me, rappresentava una sorta di lezione socio-economica. Che raggiungeva l’acme, tra letteratura e storia, quando a prendere la parola erano uomini come Gaetano Cingari, Giuseppe Reale, Antonio Polimeni. Non importa da quale lato sedessero: erano lezioni! Così mi sono avvicinato alla politica. Poi vennero i tempi di Falcomatà. E lì conobbi la passione dell’Uomo che tralascia i suoi per risolvere i problemi della collettività. Tenendo conto, prima d’ogni cosa, dell’animo umano. Diciamo che con Italo i sentimenti sono entrati in Consiglio e nella città. Abbiamo sentito, per la prima volta, coniugare il verbo innamorare, nella sua forma riflessiva. Con l’illusione del fanciullino, ho pensato di poter essere utile alla città, che mi ha visto nascere, crescere non solo fisicamente, e sono entrato in quell’aula: questa volta non dalla parte del pubblico. Avrei voluto farlo occupando il posto più alto, ma i tradimenti, le invidie rivolte sempre verso chi sa e può fare, me lo hanno letteralmente impedito. Vi sono entrato lo stesso: la dignità di quei posti è eguale, sia che tu sieda da una parte o dall’altra o sullo scranno più alto. Salvo poi a non distruggerla quella dignità, scambiandolo per un pulpito dal quale ti senti autorizzato ad offendere chi non la pensa come te, ad offendere quelli stessi che li – magari sbagliando – ti hanno fatto sedere. Gli elettori! Cittadini. Dai tempi che furono ad oggi, il mutamento in peius è sotto gli occhi di tutti. Se, per assurdo, potessi tornare studente e potessi rioccupare quel posto fra il pubblico, forse, non rifarei la stessa strada: sceglierei di entrare in un mercato persiano, piuttosto che in un luogo, dove, si dovrebbe onorare la democrazia invece di dare spettacoli indecorosi. Offendere chi non la pensa come noi, prescrivendo dell’olio di ricino, oltre ad essere un abuso della professione medica, è un abuso di potere civico, di quel potere, che come la farina del diavolo, prima o poi, va in crusca! Apostrofare chi è assente, poi, è da seguaci di Jago, che nell’Otello di Verdi, recita il suo Credo, diametralmente opposto a quello di noi cristiani. lo non sono un giudice e non gioisco dei mali e degli errori altrui. Da cittadino, però, esulto quando la Giustizia assicura a sé i manigoldi e toglie loro la maschera dei buoni amministratori, sotto la quale si nasconde chi palesemente non lo è. Il vero Giudice giusto è l’antidoto alle illusioni, alle droghe civiche, elargite a piene mani ai cittadini, per far credere loro che tutto è rose e fiori, quando invece è amianto e lerciume, pagato come fosse oro. Chi sbaglia, ed è umano, si cosparga il capo di cenere, venga a Canossa e chieda scusa a chi ha offeso e, con saccenza, continua a offendere, in contumacia. Senza stile. lo parlo… cosi, come mi vien dal cuore! Ma non sono un giudice.