18 novembre 2006
Il senso di quel geniale quanto umano componimento è riassumibile nel concetto che la morte rende tutti uguali e che le differenze di casta, di opinione, di stato sono stupidaggini che appartengono ai vivi. Talvolta, però, la morte non è vero che livella, piuttosto, oserei dire, che differenzia. O meglio, rende merito. Quante volte ci siamo accorti di talenti, di vite spese a favore della giustizia e della libertà, di esistenze spese generosamente per gli altri, solo dopo la morte degli attori? E quante volte è stata loro resa giustizia dopo vilipendi, insulti ed addirittura condanne a morte! Da Giovanna d’Arco a Sacco e Vanzetti, la storia è piena di vicende raccapriccianti. Senza ricorrere al ricordo di eventi, dove la sopraffazione e la violenza la fanno da padrone e dove le stimmate umane sono solo un dettaglio trascurabile, vorrei più semplicemente dire come la morte accomuni ed indichi alla pubblica ammirazione chi si è speso, talvolta fino all’estremo sacrificio, a favore della Comunità, anche militando su opposte rive politiche. Segno che non è l’ideologia il valore da difendere, ma il buonsenso ed il sentire popolare. Il rappresentare, il sentir comune della gente, l’essere interprete delle necessità materiali e morali, attraverso una profonda conoscenza del popolo e una grande onestà intellettuale, costituiscono gli ingredienti del consenso. Di quello vero e genuino. Non di quello clientelare e telecomandato o, peggio ancora, di quello mafia-comandato. Due reggini, che oggi vengono purtroppo accomunati dal non essere più tra noi, sono stati – nella recente storia della nostra Città – tra i maggiori interpreti dei desiderata del popolo di Reggio calabria. Per uno strano gioco del Destino furono ideologicamente divisi durante la loro vita terrena ed oggi vengono accomunati sulla via più bella della Città. Se divisi fummo in terra, ne congiunga il Nume in ciel. Parafrasando i versi del poeta e dando spazio alla fede, li immaginiamo sorridenti, stringersi la mano e passeggiare per la loro via che in comune ha il celeste del cielo e l’azzurro del mare. Italo Falcomatà e Ciccio Franco. Due storie. Due destini. Un unico amore civico: la nostra Città. Ciò che la politica ha tenuto disgiunto si è riunificato nell’imperituro ricordo dei posteri. E, visto che noi siamo figli della civiltà romana, non v’è cosa più bella per un Uomo che la Fama ed il tramandare il proprio nome e l’onore di essere stati figli eletti di questa terra. Oggi, dall’intitolazione dell’anfiteatro al senatore Ciccio Franco, dovremmo trarre qualche insegnamento in più. Tutti. Il primo è che, da qualunque parte politica si operi e si parli, è giusto farlo, interpretando il pensiero popolare e non solo il proprio. Il secondo, ci viene dalla vedova. Signora Elsa Caminiti Franco. Ed è un messaggio di semplicità e di amore, quale si confà ad una donna di rango. Ad una donna che tiene stretto a sé il dolore per la perdita del marito e per non strumentalizzarlo, non partecipa alla cerimonia di intitolazione dell’anfiteatro e della lapide. Si limita a scrivere una lettera, dove orgoglio e dolore si coniugano in una scelta, di fronte alla quale bisognerebbe levarsi tanto di cappello. “Andrò ad omaggiare il luogo in una qualunque sera e da sola” scrive donna Elsa, doverosamente ringraziando tutti. Ma non sarà sola, Cara Signora, ci saranno tutti gli uomini seri ed onesti di questa città, che silenziosamente la accompagneranno idealmente in segno di rispetto. E poi Ciccio ed Italo saranno sempre là, accanto a Lei, e nel cuore di tutti.