11 dicembre 2009
C’è un modo di dire, affidato alla saggezza popolare, secondo il quale il tempo sarebbe il migliore rimedio alla sofferenza. Soprattutto quando questa è generata dalla perdita di una persona cara. lo, che ho fatto sempre tesoro di ciò che discende dall’esperienza, ancor più se collettiva, su questo assunto, non mi ci ritrovo. Più lo scorrer del tempo segna il mio volto, via via privandomi dei tanti che mi hanno accompagnato sulla difficile strada della vita, più sento la mancanza di tutti coloro che l’hanno caratterizzata, aiutata, accompagnata. Ogni giorno che passa, lo costruisco facendo tesoro dei sorrisi, dei rimbrotti, delle indicazioni insomma dei consigli, che i baluardi della mia formazione, umana civile e perché no politica, mi hanno profuso a piene mani, scandendola, negli anni, passo dopo passo. Ma, nonostante questo robusto e sottile, al tempo stesso, filo di Arianna, che mi guida nell’agire quotidiano, non scema anzi aumenta l’angoscia, il dolore, talvolta anche fisico, per non aver più queste persone accanto. Più tempo passa, più mi mancano. In questa scansione inesorabile del divenire, forte ed in parte lenitivo, è l’impulso a far sì, che anche altri non dimentichi. Questo meccanismo, che è diffusamente presente nell’animo umano, è quello che ci spinge a stimolare il ricordo collettivo: insieme, ci si conforta a vicenda, evocando chi non c’è più. Ora, ci sono tanti modi per farlo: tutti legittimi. Quelli plateali, enfatici, dove talvolta l’esagerazione fa esclamare il popolo con quell’espressione dialettale intraducibile, che è la quintessenza dell’espressività comune: “maru a ccu mori!” Oppure quelli più interiori, sommessi, legati più alla propria intimità. Ci sono lati di un rapporto tra esseri viventi, che restano nel cuore degli uomini, anche dopo la morte, che non sono condivisibili con gli altri. Una sorta di segreto che ci segue nell’al di là. E ne siamo gelosi, inconsciamente gelosi. Difficilmente lo sveliamo, spesso lo evochiamo a noi stessi. Una sorta di empatia immortale, che ci lega ultra mortem. Una specie di quel filo di Arianna che perpetua un legame forte. Tanti i nostri spiriti guida, tanti i fili. È reggendomi ad essi, che vado avanti. All’altro capo di uno di questi c’è Italo. Non è necessario che io ne tessa le lodi. Non ne sarei capace e ne sminuirei la grandezza. Ma lasciatemi dire quanto mi mancano quei sogni che avevo fatto immaginando la Città che Lui aveva nel cuore e nella mente. Quell’idea di Città che mi aveva trasfuso nelle lunghe ore, spesso notturne, trascorse a girare in lungo ed in largo le vie – soprattutto periferiche – della Sua Reggio. Un’idea che era andata a far parte del patrimonio della Gente. Che l’aveva capita. Che l’aveva fatta sua. Chissà quanto avrà sofferto, rendendosi conto, che nessuna forza terrena, gli avrebbe più consentito di continuare quel virtuoso progetto, che, con tanta forza, rettitudine e soprattutto amore, aveva delicatamente imposto! Mi piace, talvolta, collegarmi a quel filo immaginario e pensare come e cosa sarebbe stata la Città se Italo l’avesse governata per gli anni del suo mandato e per quelli successivi, che avrebbe consegnato, sicuramente, a chi aveva già in animo. Ma lo sapeva lui solo e qualcun’altro, che ha taciuto, cambiando consapevolmente la Storia. Ciao Italo!